Pubblichiamo un contributo che abbiamo ricevuto da Luciano Petrullo del Foro di Potenza.

“Se penso alla giustizia, non posso fare a meno di pensare alla magistratura onoraria.
Ho svolto anch’io incarichi di magistrato onorario, per la verità; fui Vice Pretore Onorario, con funzioni di reggenza, nei primi anni della mia professione, precisamente negli anni ottanta.
Al Vice Pretore veniva affidata una Pretura di quelle sparse, all’epoca, sul territorio, e questi ne aveva la completa responsabilità; teneva udienze civili e penali, redigeva sentenze, archiviava i procedimenti penali infondati e via discorrendo. Un bel lavoro che, comunque, senza provocare arretrati, si poteva svolgere contemporaneamente alla professione.
Peraltro era ben pagata la funzione onoraria, perché veniva corrisposto lo stipendio di un magistrato di prima nomina.
La funzione onoraria, ripeto, ben dignitosamente retribuita, colmava le lacune di organico dei magistrati togati e la giustizia andava avanti, senza particolari ritardi.
Alcune Preture, poi, erano state affidate per periodi lunghissimi sempre agli stessi Vice Pretori, che ci avevano dedicato pressocchè una vita.
Quindi con pieni poteri, retribuito e con le relative responsabilità, questo era il magistrato onorario.
Evidentemente si trattava di incarichi a scadenza, rinnovabili e che venivano meno alla nomina di un togato.
Negli ultimi decenni, invece, lo Stato italiano ha istituito un vero e proprio esercito di magistrati onorari che lavorano tanto e non guadagnano niente. Uno sfruttamento a regola d’arte che con lo schiavismo di una volta mantiene rapporti di parentela ben stretta.
Si pretende, cioè, di amministrare la giustizia, da parte dello Stato italiano, attingendo alle risorse di volontari che, pur prodigandosi e assumendosi responsabilità, si vedono gratificati dalla chiamata benevola dello Stato e da qualche spicciolo.
Si è creata, cioè, una giustizia di serie A e una di serie B. E’ di comune conoscenza che i magistrati siano fra gli stipendiati pubblici più ricchi; sebbene il loro stipendio, nei primi anni sia dignitoso ma contenuto, con gli anni diventa lauto, probabilmente eccessivo, se paragonato alla media degli stipendi italiani; penso, per esempio, agli insegnanti che svolgono una grande funzione e che sono pagati miseramente, ma non solo agli insegnanti.
Bene, nonostante venga riconosciuto ai magistrati uno stipendio sontuoso, segno dell’importanza e quasi sacralità della funzione, a chi svolge le loro stesse funzioni da onorario, viene riconosciuta una paga non invidiata neanche da una domestica.
Il fenomeno, poi, si va allargando e ai magistrati onorari vengono affidati veri e propri ruoli, frequenti sostituzioni d’udienza, con margini di indipendenza talvolta pari a zero, e anche attività propria di ufficio.
Le sentenze le fanno gli uni come gli altri e hanno uguale valore, ma se scritte da un togato costano allo Stato un pacco di quattrini, se scritte da un onorario, quattro centesimi.
Al cittadino, invece, costa uguale: stesso corposo contributo unificato, stessi bolli e stessi diritti. Quindi allo Stato due corsie, una costosa e una economica, ma per il cittadino la corsia è unica.
A lato ogni considerazione sul ruolo degli onorari che dovrebbe essere davvero episodico e non strutturale, come invece è, rimane la sostanza di uno Stato che sfrutta qualificati cittadini ai quali chiede di svolgere il lavoro ritenuto, a torto, di manovalanza, perché quando si parla di giustizia non esiste manovalanza, senza retribuirlo dignitosamente, contrariamente, se non sbaglio, finanche alla Costituzione.
A lato anche ogni considerazione sulla qualità del lavoro che può in generale garantire un onorario, giacchè non è consentita una seria considerazione anche sulla qualità del lavoro del togato che gode, pare di capire, di un automatico certificato di qualità, dal momento che il diritto all’impugnazione, teso proprio alla revisione di un lavoro che si presume non di estrema qualità, in quanto ingiusto, è diventato un esercizio di equilibrismo che nulla ha a che vedere con il diritto sostanziale, rimanendo teatro di nullità e decadenze di carattere pressocchè formale.
Diciamola tutta: affidare una causa a un giudice onorario, che non ha fatto un concorso e al quale non si chiede un particolare curriculum, è, spesso, come affidare un’operazione chirurgica a un neo laureato che sa di dover eseguire l’operazione quasi gratis.
Diverso sarebbe tornare ai sistemi di una volta: giudici onorari eccezionalmente impiegati, pescati fra avvocati che hanno un certo numero di cause alle spalle, anche se giovani, retribuiti siccome un togato; restituendo dignità alla funzione onoraria e di conseguenza anche credibilità alla figura del giudice onorario, altrimenti destinata a espiare anche colpe non sue.
Gli avvocati e gli stessi magistrati dovrebbero sprecare più tempo in una riflessione sul tema, troppo spesso affidato a improvvisazione e sempre caratterizzato dall’urgenza e senza che il tema sia mai stato affrontato sistematicamente, con lungimiranza e con un minimo di progettualità.”