Ricordo un ricorso per Cassazione scritto da mio padre nel 1992. Era di 4 pagine protocollo, compresa la intestazione e la relata di notifica. Due motivi succintamente articolati per una questione di un miliardo di lire dell’epoca.
Il ricorso venne accolto, insomma mio padre vinse la causa con un ricorso che la Corte comprese immediatamente perché chiaro, succinto e leggibile in cinque minuti.

Oggi, per fare un ricorso per Cassazione bisogna scrivere almeno una decina di pagine perché vige il principio, piuttosto arrogante, di autosufficienza del ricorso. L’autosufficienza del ricorso si traduce nel fatto che il magistrato per decidere deve avere tutto sotto gli occhi solo leggendo il ricorso. Cioè, nonostante sia obbligatorio trasferirgli ogni documento, con un bel viaggio a Roma o una spedizione poderosa, oltre quella che farà la Corte di Appello, col suo fascicolo di ufficio, dalla lettura del solo ricorso e del controricorso deve essere in grado di decidere della bontà delle ragioni del ricorrente ovvero della loro infondatezza.
Il ricorso diventa un romanzo, e, beninteso, il giudice potrà evitare di leggere o tenere in conto tutto quello che non sia rappresentato e riprodotto nel ricorso.
Non può perdere tempo a rendersi conto del contesto della causa, deve bastare il ricorso, nel quale andranno indicate le parti della sentenza che non piacciono, tipo il rigo 3 della pagina due dove viene scritto che il diritto …ecc., i motivi del ricorso, le norme che si intendono violate, quasi si parlasse a un geometra, la indicazione dei documenti, atti o cos’altro su cui si fonda il ricorso. Quest’ultima specificazione viene interpretata a fasi alterne. Talvolta si chiede la “trascrizione” degli atti cui si fa riferimento (e quindi da dieci pagine si può arrivare a trenta). Guai a costringere il giudice a sfogliare un documento. Una tale omissione viene sanzionata con l’inammissibilità del ricorso: insomma come punire con la pena di morte chi non ha detto buongiorno entrando in una stanza.

Basterebbe, invece, se proprio si dovesse convenire che queste norme siano giuste (!?!) chiedere una integrazione senza fustigare, flagellare e umiliare, chi chiede giustizia pagando anche un sacco di quattrini, visto che lo Stato alza annualmente i prezzi, sebbene renda un servizio lumaca.

Evidente lo scopo. Si vuole disaffezionare il cittadino alla difesa dei propri diritti, ovvero indurre a limitarsi ad accontentarsi di una sentenza raffazzonata (spesso), succintamente motivata (altrettanto spesso), sballata (talvolta), discutibile (accade) talvolta giusta e motivata, e semmai scritta da chi non ha fatto un concorso pubblico e non viene pagato dignitosamente dallo Stato.

Visto che funziona il sistema della disincentivazione, oltre al ricorso per Cassazione, anche il semplice appello segue più o meno la stessa sorte. Talchè il processo è diventato un campo minato che è meglio evitare. Quando si dice civiltà giuridica.

A ogni modo il sistema prevede che la professione di avvocato la esercitino persone non solo preparate, ma anche smaliziate, furbe, diaboliche, magiche, visto che per evitare tutte le mine non basta essere solo bravi, ma ci vogliono anche capacità divinatorie e, soprattutto, culo.

Per la prossima riforma si potrebbe pensare al recapito del ricorso con una rosa e un cioccolatino dalla cui bontà dipenderà l’ammissibilità o meno del ricorso, secondo il gusto di chi lo riceverà, e giustizia sarà, alla fine, totalmente negata.

Eppure, basterebbe, per evitare ricorsi davvero infondati, penalizzare chi non ha ragione anche e soprattutto nel merito, gravandolo di un surplus di spese, senza penalizzare tutti, a prescindere e senza guardare il merito.
Ma parliamo di giustizia vera, quindi, siamo fuori tema.

Luciano Petrullo

Avvocato del foro di Potenza